Nella maggior parte dei casi, le immagini dei cani nei canili mi risultano particolarmente insopportabili. Lo so, ci sono milioni di animali che soffrono ogni giorno, negli allevamenti intensivi, nei circhi, in ogni dove. I milioni di visoni sacrificati in Danimarca perché potenzialmente infetti da una variante del covid (e le migliaia di visoni abbattuti per lo stesso motivo negli allevamenti nostrani) sono solo il più recente esempio di un biocidio (e in queste ore si sta scoprendo che la legge danese non avrebbe consentito l’abbattimento degli animali sani) che si sarebbe comunque consumato lo stesso, e silenziosamente, essendo ancora consentito in tanti paesi europei l’allevamento di animali da pelliccia (anche se in molti Paesi sono stati già banditi, ad esempio in Germania). Ciononostante, c’è qualcosa che mi turba particolarmente nello sguardo dei cani dietro le sbarre. Mi fanno sentire particolarmente in colpa, forse perché la loro condizione di prigionia è spesso accettata come se fosse normale. Un orso in gabbia viene immediatamente percepito come in condizione di sofferenza, ma lo stesso non vale per un cane. Per l’ordine di cattura permanente dell’orso M49 stiamo portando avanti una difficile battaglia giudiziaria (la LNDC è l’unica associazione ad avere impugnato l’ordinanza di cattura e il destino di questo animale si deciderà il prossimo 10 dicembre davanti al Consiglio di Stato). Ma per le decine di migliaia di M49 di specie canina che invece si trovano nei canili, l’atteggiamento mentale è purtroppo diverso. Si, perché i canili o sono “sanitari” o sono “rifugi”, e queste parole infondono una certa sicurezza. Come se i cani in canile stessero al sicuro. E poi ci sono i volontari che lavorano per le adozioni. Ma per molti, troppi cani, le richieste di adozione non arriveranno mai. E questa loro condizione, avallata di fatto come se fosse normale (quando invece non lo è), mi ferisce particolarmente.
Per questo mi ha fatto piacere, in qualche modo, che durante il nostro convegno del 6 novembre, intitolato “Diritti degli animali: le nuove frontiere per la loro tutela”, il dott. Rosario Fico abbia definito questi cani “ergastolani”. Perché dare alle cose il loro nome aiuta a trovare le soluzioni. E il dott. Fico, responsabile del centro di referenza nazionale per la medicina veterinaria forense presso l’IZS di Grosseto, è uno che ha le idee molto chiare, anche sulle soluzioni che da tempo si attendono per mettere fine al problema del randagismo.
Ci sono un paio di concetti esposti da Rosario Fico nel corso del convegno che non possono essere dispersi e che possono costituire davvero un nuovo punto di partenza per evitare di avere canili traboccanti di anime in pena. Io stesso, che mi occupo di questi temi da anni, sono rimasto stupito dalla semplicità dell’analisi e della soluzione. Quasi un uovo di Colombo, tanto che il giorno dopo il convegno ho telefonato al dott. Fico, per chiedergli se avessi capito bene il senso delle sue parole. E lui mi ha confermato che avevo capito bene. I punti sono i seguenti.
Primo: oltre il 90% dei cani che finiscono in canile ha avuto in qualche modo una famiglia di riferimento. La percentuale mi è sembrata molto alta, ma il dato non è basato su una valutazione personale, bensì su studi sul territorio ripetuti in località diverse, in Italia e anche all’estero, che hanno confermato sempre lo stesso risultato.
Secondo: la soluzione al problema è costituita dall’anagrafe canina e dalla responsabilizzazione dei proprietari. Se state pensando che l’anagrafe canina già esiste, sappiate che è quello che ho pensato anch’io quando Rosario Fico ha fatto questa proposta. Ma il discorso va approfondito. In Italia l’anagrafe canina è concepita in modo passivo e non attivo. Il servizio veterinario della Asl attende di ricevere comunicazioni dai proprietari dei cani e non sono disposte attività di controllo, se non in modo estemporaneo. Se ad esempio fossero disposti controlli mirati e se fosse istituito l’obbligo in capo ai veterinari privati di microchippare immediatamente i cani non censiti portati nei loro ambulatori, emergerebbero i cani invisibili che alimentano le cucciolate che poi generano i cani vaganti sul territorio.
Insomma, un cambio (parziale) di strategia: se fino ad oggi il mantra delle associazioni è stato quello di chiedere le sterilizzazioni a tappeto, dovremmo iniziare a chiedere anche censimenti a tappeto. Ovviamente, l’implementazione dell’anagrafe canina da sola non basterebbe e le sterilizzazioni continuerebbero ad essere un importante strumento per diminuire il numero dei cani sul territorio, insieme alla promozione delle adozioni. Ma forse una spinta decisiva potrebbe venire proprio dalla soluzione prospettata da Rosario Fico.
Confesso che io stesso non avrei saputo cogliere l’importanza di questa proposta, semplice ed economica, se non avessi avuto la possibilità di partecipare, in rappresentanza della Lndc, alle varie riunioni del gruppo di lavoro Cats and Dogs nell’ambito dell’Eurogroup for Animals, che si sta concentrando sull’elaborazione di linee guida a livello europeo per ottenere un’efficiente gestione della popolazione canina. La coordinatrice del gruppo di lavoro, Iwona Mertin, che abbiamo intervistato sempre nell’ambito del nostro progetto digitale, ci ha spiegato come a livello europeo l’ICAM (International Companion Animal Management Coalition) punta proprio sulla proprietà responsabile, che implica un valido sistema di identificazione e registrazione dei cani e severi controlli su allevamenti e vendite. Di fronte a queste indicazioni, la mia reazione nei confronti dei rappresentanti delle altre associazioni è stata sempre quella di sottolineare la insufficienza di queste misure in ambito italiano, visto il numero dei cani che continuano a fare ingresso nei canili, che ritenevo non riconducibile solo a fenomeni di abbandono o di mancata responsabilizzazione dei proprietari. Ho invece constatato una convergenza tra le indicazioni dell’ICAM e quelle del dott. Fico che merita di essere attenzionata. Per rendere più chiara l’idea, e semplificando un po’ i concetti, si può ricorrere al seguente schema:
Le associazioni protezioniste si sono storicamente concentrate soprattutto sulle azioni indicate nell’ultima parte dello schema (sterilizzazioni e adozioni), mentre il rubinetto che alimenta il randagismo risiederebbe soprattutto nell’inefficienza dell’anagrafe canina e nella mancata responsabilizzazione dei proprietari. Questo spiegherebbe il motivo per cui, nonostante l’incessante lavoro da parte delle associazioni, si ha sempre la sensazione di stare al punto di partenza. Se questa analisi fosse corretta (me lo auguro davvero), lavorando adeguatamente sulle azioni a monte e non a valle del fenomeno randagismo, si potrebbe raggiungere un completo cambio di scenario in meno di dieci anni.
A partire dal prossimo anno, cercheremo di tradurre in proposte concrete le tante indicazioni raccolte nel corso del nostro progetto digitale e del nostro convegno, e tra queste in primis ci saranno proprio quelle che riguardano la gestione del randagismo. Insieme ad altre associazioni europee stiamo partecipando attivamente alla campagna “End the cage age”, cioè “fine dell’era delle gabbie” per gli animali negli allevamenti. Lavoreremo affinchè anche per i cani possa arrivare presto la fina dell’era delle prigioni.